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Un'estate da...paura

Paura.

Un po' come la parola "morte", anche il termine "paura" viene generalmente connotato nella nostra cultura in modo negativo.
Lo troviamo sempre accompagnato da altrettante parole spaventose, proprio a sottolineare come nell'uomo rappresenti un ostacolo, un qualcosa che può farci del male.

Questa estate per me è marcata dalla paura.

La paura di aver lasciato un lavoro che seppur non gratificante, mi dava un certo tipo di stabilità, faceva parte della mia routine, delle mie abitudini - detto francamente, la parola abitudine mi spaventa molto di più.
E quindi la paura di aver fatto la scelta sbagliata, di non essermi accontentata, di sapere cosa lascio ma non cosa troverò. L'ignoto. L'abisso in cui dovrò tuffarmi.

La paura di non essere pronta a lasciare casa mia. La casa in cui ho passato gli ultimi 17 anni. Il nido che ho curato e odiato negli ultimi 4 anni di vita da sola, senza i miei genitori. Lontani da me per lavoro. Avrei dovuto raggiungerli prima, avrei dovuto osare, non auto-convincermi di fare la cosa giusta solo perché ero innamorata. Maledetto amore e maledette convinzioni.

Ora sarebbe stato tutto molto più semplice.

Probabilmente avrei avuto già un lavoro, una casa mia magari, dei genitori nella stessa città e nuovi amici. Magari anche un fidanzato, che ne sai...

Alterno giornate in cui mi sento forte, sicura e carica, pronta a lasciare lo schifo che mi ha solo fatto soffrire in questi ultimi 4 anni per ricominciare, a giornate in cui vorrei solo nascondermi sotto il letto, con lo sguardo verso la porta, nella speranza che il mio salvatore possa venirmi a salvare, a scegliere per me il mio futuro. I nuovi inizi fanno paura. Sebbene ogni donna é e deve essere abituata a ritrovare le energie per distruggere il marcio e ricostruirci sopra qualcosa di buono, distruggere la tela a cui ho dedicato sacrifici, pianti, rabbia e frustrazione ma che ho allo stesso tempo curato con fare materno, non é un passaggio facile.

Non sto andando dall'altro capo del mondo. Non sto scegliendo di fare volontariato in un Paese in via di sviluppo e nemmeno sto scegliendo l'isolamento sul cucuzzolo di una montagna.
Sto semplicemente andando dai miei genitori, perché ne ho bisogno, ho bisogno dopo tanti anni di lontananza, della vicinanza che solo il conforto di una madre e la protezione di un padre ti sanno dare. Lo so, la convivenza sarà difficile per tutti, ci siamo abituati a ritmi diversi di vita, ma non voglio sia questo a fermarmi. Posso trovare in qualsiasi momento un'altra sistemazione, se lo voglio.

Ho sempre preteso tanto da me. Voglio di più. Voglio sedermi al tavolo dei grandi. Merito di più, perché lo so, non ho bisogno che qualcun altro lo dica per me. Ho aspettato, forse troppo, forse non è mai troppo tardi.

Chiudo con una citazione dal libro "Donne che corrono coi lupi", che sto studiando più che leggendo in modo insolitamente minuzioso:

Tutti quelli che "non sono pronti", "hanno bisogno di tempo", sono comprensibili, ma soltanto per un breve periodo. La verità è che nessuno è mai del tutto pronto, non esiste il "momento giusto". Come sempre nella discesa nell'inconscio, viene un momento in cui uno semplicemente spera nel meglio, si tappa il naso e si tuffa nell'abisso.





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